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Domani su Ombra, la domenica del Riformista

Giancarlo Siani, milite ignoto anticamorra di Fabrizio D’Esposito

Ritratto di Cass Sunstein di Mario Ricciardi

La fedeltà intatta di Yoko Ono di John Vignola

Un’ossessione chiamata corpo maschile di Walter Siti

Che il vizio sia almeno capitale di Filippo La Porta

e  le rubriche

Fulvia La Riformata di Fulvio Abbate

La Zona Cieca di Chiara Gamberale

Le strisce di Stefano Disegni

«Forse il sogno più dolce della mia vita fu quando Robert Louis Stevenson venne a chiedermi se potevo prestargli un po’ dei miei Urania». La casa editrice Einaudi propone in questi giorni, per la collana Arcipelago, il libro di Michele Mari intitolato Tu, sanguinosa infanzia (pp. 134, euro 13) precedentemente pubblicato da Mondadori nel 1997. Al contrario dell’itinerario standard dei libri che escono in libreria (vendere, sparire dallo scaffale, entrare nell’oblio, svanire dai cataloghi), in questi dodici anni, la raccolta di racconti di Mari ha percorso una strada inversa. È stata prima letta da pochi, poi studiata e amata da molti; ha fatto in tempo ad entrare nelle storie letterarie, e oggi viene riproposta, mostrando di avere la forza di quei pochissimi titoli in lotta per diventare dei classici.

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A parità di concentrazione e precisione chirurgica ci sarà pure un motivo per cui un filologo è diverso da un torero. Forse perché del toro non si conserva memoria, mentre di uno scrittore sì, deduzione che però va a scapito dei meriti del filologo. Ma è altrettanto probabile che lo studioso non voglia altro destino nell’immaginario collettivo che non sia quello di silenziosa curatela. Nessun fazzoletto sbandierato con foga, vietato sedersi sugli spalti. Eppure Dante Isella, il più eminente studioso di Carlo Emilio Gadda e allievo del maestro Gianfranco Contini, ha trovato l’occasione di provare a forzare la mano.

L’ultimo suo lascito programmato è il diario di Un anno degno di essere vissuto (Adelphi, pp. 158, euro 12), quasi un titolo da potente scrittore americano, ed è il racconto frammentato, tra episodi e capitoli scritti in varie occasioni, di una stagione fondamentale per il futuro filologo di Dossi e del «gran lombardo»: l’incontro con il trentunenne Contini a Friburgo, dove dal 1938 era ordinario di filologia romanza. Tanto più che da quello spazio casuale di incontro in mezzo alla guerra nella neutrale Svizzera, venne fuori anche un altro grande filologo, D’arco Silvio Avalle mentre – pur assodato nelle biografie il lungo insegnamento svizzero dell’autore dei Poeti del Ducento – nel libro conversazione con Ludovica Ripa di Meana (Diligenza e Voluttà), Contini faceva solo degli accenni agli anni della sua prima cattedra.

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ANTIPERONISTA SPERIMENTATORE. Era il compagno spirituale di Guevara, potrebbe essere morto come Mercury, la sua tomba parigina è meta di pellegrinaggi come quella di Jim Morrison. Ha rinnovato la letteratura latinoamericana più di Gabo e influenzato anche Italo Calvino.

Nel mondo è probabilmente meno conosciuto di Shakira e i suoi celebri fianchi, dei gol di Maradona “mano di dio” compresa, e persino di García Márquez. Ma Julio Cortázar, morto il 12 febbraio del 1984 e sepolto a Parigi, nel cimitero di Montparnasse, è uno dei miti più radicati nell’America latina. Il culto che gira attorno allo scrittore argentino-parigino è silenzioso, ma tenace, profondo e contagioso, da poter compere con altre icone pop, come il Jim Morrison sepolto nell’altro cimitero parigino, di Père-Lachaise. Rivoluzionario nel suo pensiero politico, sperimentatore nella sua creazione letteraria, malato di “gigantismo” fisico, è morto nel mistero, come tutte le leggende. Nella biografia, una delle tante, dell’ex-amante, la scrittrice uruguaiana Cristina Peri Rossi, si sostiene che sia morto di Aids, e non di leucemia, come riporta la versione ufficiale. Quello che è certo è che il culto di Cortázar continua a ispirare le opere degli scrittori di oggi e i pellegrinaggi dei suoi lettori. Ricalcano i passi del suo autore e dei suoi personaggi, tra il fantastico e l’autobiografico.

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Polvere sull’erba. Nessun libro «scomodo» è rimasto nei cassetti per 35 anni. Il testo «revisionista» riedito nel 2000 non assomiglia affatto all’esordio dello scrittore di Parma.

Ancora il 31 gennaio scorso, sul Corriere della Sera, Alberto Bevilacqua imputa alla censura del tempo se nel ’55 «venne bloccata» la sua prima prova narrativa, La polvere sull’erba, romanzo poi apparso da Einaudi prima nel 2000 e poi nel 2008: con una diversa indicazione. Nel 2000 il risvolto di copertina scrive che Sciascia «legge il dattiloscitto, vorrebbe pubblicarlo, ma ritiene che possa provocare uno scandalo», riguardando le torbide vicende del «Triangolo rosso», sicché lo accantona; nel 2008 la frase cambia di poco: Sciascia «vorrebbe pubblicarlo ma il clima censorio glielo impedisce».

In entrambi i casi, sembrerebbe che sia Sciascia – autore nel ’55 del diario-denuncia Le parrocchie di Regalpetra e prossimo a pubblicare racconti di tenace concetto come L’antimonio e Il Quarantotto – a lasciarsi intimidire dalla censura democristiana e non che sia la censura a bloccarne la pubblicazione, come parrebbe invece adombrare l’articolo del Corriere. Uno Sciascia di tanta prudenza è davvero inimmaginabile se si pensa che proprio nel ’55, nelle vesti di curatore della collana I Quaderni di Galleria dell’editore Sciascia di Caltanissetta, pubblica un libro di Bevilacqua intitolato giustappunto La polvere sull’erba. Nella sua nota alle due edizioni, Bevilacqua precisa che quel libro era costituito da mere «prove d’autore», le sole che Sciascia (pur avendo avuto consegnate oltre alle prove d’autore, scritte ovviamente in preparazione del romanzo, addirittura il romanzo stesso) avrebbe avuto animo di pubblicare.

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