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Walt Kowalski ringhia, letteralmente, indispettito da tutto: della nipote col piercing, dal prete cattolico, dal figlio che guida un Suv giapponese, dai vicini asiatici che sgozzano polli in giardino. È un dinosauro americano rabbioso e razzista, poco conta che abbia lavorato cinquant’anni alla Ford. Dalla sedia a dondolo osserva la bandiera a stelle e strisce che sventola sulle scale, fuma e trangugia ettolitri di birra, rimpiangendo il tepore della vecchia comunità. Racchiuso tra due funerali, “Gran Torino”, di e con Clint Eastwood, è un film a basso costo, personale e classico, minimalista e crepuscolare, girato per il piacere di recitare un’ultima volta. Così, a 78 anni, Clint si cuce addosso questo solitario e forastico operaio che aggiusta tutto ma non sa curare se stesso. Decorato in Corea, custodisce nel baule il fucile Garand e la Colt 45. Pronto a usarli, se serve, contro i vicini della comunità Hmong, che tratta da “musi gialli” coprendoli di insulti inverosimili, politicamente scorretti, quindi divertenti. L’incontro con due di quei adolescenti, l’irrisolto Thao e la più intraprendente Sue, lo costringe a fare i conti con se stesso, a smussare gli angoli di carattere, ad aprirsi a consuetudini diverse, addirittura a prendersi cura di loro, come un nonno protettivo, di fronte alle bravate di una gang asiatica. Dimenticare Callaghan nel finale. Non un capolavoro, ma gran bel film, dove si impone una lucida malinconia senile, specie nella cerimonia degli addii evocata con tocchi sommessi.
VOTO 8,5
GRAN TORINO
Clint Eastwood
Troppo teatrale? Il rilievo è inconsistente. E allora “La parola ai giurati”? “Due partite” nasce come una pièce teatrale, nell’ereditarla dall’autrice Cristina Comencini, Enzo Monteleone ne rispetta la scansione in due tempi, la ricchezza dialettica, senza “farle prendere aria”, come si dice in gergo. Funziona? Dipende dallo sguardo del pubblico femminile sopra i 30, al quale il film si rivolge. Al quartetto originario formato da Margherita Buy, Isabella Ferrari, Marina Massironi e Valeria Milillo, prima nel ruolo di madri e figlie, si aggiungono Paola Cortellesi, Carolina Crescentini, Claudia Pandolfi e Alba Rohrwacher (con qualche minima variazione). Riflessione a tratti ulcerata, pure spassosa, sulla natura quasi primitiva della maternità, “Due partite” procede tra fitte e contrazioni, isterismi e frustrazioni, citazioni dalla Ginzburg e da Rilke. Al suono di “Se telefonando”, quattro madri borghesi si ritrovano ogni giovedì in un tinello tirato a lucido per giocare svogliatamente a carte e misurarsi con le crepe dei rispettivi matrimoni. Casalinghe già disperate, è il 1966, murate vive in una condizione di soffocante agiatezza: nessuna lavora. Tre decenni dopo le figlie, ben inserite nel mondo delle professioni, si ritrovano per un funerale. Squillano i cellulari, muta il lessico, ma in fondo gli argomenti sono gli stessi: solo che ora tutte desiderano un figlio…Monteleone applica stili fotografici (e di ripresa) diversi ai due tempi, giocando su arredi e acconciature: più riuscito il secondo.
VOTO 6,5
DUE PARTITE
Enzo Monteleone
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